Esiste la dipendenza da videogiochi? Se esiste: perché?
L’analogia tra “dipendenza da videogiochi” e dipendenza da gioco d’azzardo può essere fuorviante.
Pubblicato il 2 febbraio 2012 da Peter Gray in Freedom to Learn
“Gli esperti”, specialmente quelli frequentemente citati nei media, ci descrivono continuamente i pericoli che i nostri figli potrebbero correre. In genere ciò che colpisce e incute timore, sono le storie reali che ci vengono presentate. Un bambino, in un luogo qualsiasi, mentre giocava fuori in assenza del genitore, è stato rapito e ucciso. Ne consegue che, chiunque permetta al figlio di giocare fuori senza la stretta sorveglianza di un adulto, sia un genitore negligente. Un giovane sudcoreano poco equilibrato gioca a un videogioco per cinquanta ore di seguito, senza fermarsi per dormire o mangiare, subisce un infarto e muore. Dunque i videogiochi creano dipendenza, sono pericolosi, dobbiamo bandirli o limitarne l’uso affinché i nostri figli non muoiano come quel povero sudcoreano.
I fatti reali di questo tipo sono tragici, ed è anche vero che le tragedie avvengono generalmente in modo del tutto imprevedibile, tuttavia, quando ne veniamo a conoscenza, dobbiamo ricordarci che esistono circa sette miliardi di persone al mondo: 7 000 000 000 000! Quel giovane coreano rappresenta lo 0,000000014 per cento della popolazione mondiale. È naturale, con sette miliardi di persone, che ogni giorno in qualche luogo capiti qualcosa di strano. Gli “esperti” allarmisti e i media non saranno mai a corto di storie drammatiche.
Oggigiorno, ovunque, centinaia di milioni di persone giocano ai giochivideo. La stragrande maggioranza di quei giocatori sono persone del tutto normali, conducono cioè una vita assai banale; eppure una piccola percentuale di essi sono dei killer, alcuni sono terribilmente depressi, altri soffrono di manie di suicidio; ogni giorno capita che un giocatore di videogiochi faccia qualcosa di tremendo o sperimenti qualcosa di tremendo. Questo vale anche per le centinaia di milioni di persone che non giocano ai videogiochi. Per questo motivo le storie reali sono di per se stesse poco importanti. Se vogliamo conoscere quali siano le conseguenze dell’uso dei videogiochi, o di qualunque altra cosa, occorre consultare statistiche e indagini ben progettate, e sottolineo ben progettate.
Ormai da molti anni, i ricercatori stanno cercando di dimostrare che i videogiochi siano dannosi. Ci si concentra soprattutto sul contenuto violento di alcuni giochi, e sono stati effettuati parecchie decine di studi per dimostrare che il giocovideo violento induca alla violenza nella vita reale. L’anno scorso, la Corte Suprema americana ha dovuto valutare questo tipo di ricerca per il caso Brown contro Entertainment Merchants Association. Dopo molte esami e testimonianze, la corte ha concluso che “Le indagini atte a stabilire una relazione fra l’uso di giochi video violenti e le conseguenze nocive sui ragazzi, non hanno stabilito che l’uso di tali giochi induca i minorenni ad agire in maniera aggressiva”. Nel 2010, il governo australiano, in risposta alle petizioni ricevute per proibire o limitare i giochivideo a contenuto violento, dopo aver valutato ogni prova, giungeva a una simile conclusione. E i sociologi che hanno analizzato gli studi e condotto delle metanalisi sull’argomento sono anch’essi giunti a quella conclusione (cfr. il mio saggio del 7 gennaio 2012 (Jan. 7, 2012).
Finora lo studio migliore, volto a ricercare il rapporto di causa-effetto fra la violenza del videogioco e la violenza nella vita reale, è senz’altro quello eseguito da Chrisopher Ferguson[i] con i colleghi dell’Università internazionale Texas A&M, che sarà presto pubblicato nel Bollettino di ricerca psichiatrica (Psychiatric)[ii]. L’équipe di Ferguson ha esaminato un campionario di 165 giovani per un periodo di tre anni, valutando la maniera di giocare e vari altri aspetti della loro vita. Non è stata trovata nessuna relazione tra l’uso di giochivideo violenti e la violenza nella vita reale commessa da questi giovani. È stato però appurato come la violenza di quei soggetti nella vita reale fosse decisamente prevedibile, data la violenza reale alla quale erano sottoposti nella vita quotidiana. Fatto poco sorprendente, per i ragazzi con genitori o amici violenti, la probabilità di propendere alla violenza era molto più alta, rispetto ai ragazzi con genitori o amici non violenti. Il videogioco, violento o meno, non aveva alcuna incidenza. Lo studio di Ferguson, e molti altri studi portano alla conclusione che, se la violenza reale genera altrettanta violenza nella vita reale, non si può dire la stessa cosa per la violenza finta.
Nel mio ultimo saggio, ho sottolineato i vantaggi sociali e cognitivi conseguiti dai ragazzi che giocano ai videogiochi. Lungi dall’essere una forma di isolamento, i videogiochi rappresentano generalmente uno mezzo di socializzazione e di confronto per i giovani. Dal punto di vista cognitivo, lungi dal rendere ebeti, soprattutto i videogiochi più recenti, cioè quelli online, per più giocatori (o multiplayer), rappresentano una sfida straordinaria per le capacità mentali del giocatore oltre a favorirne lo sviluppo cognitivo. Attualmente però voglio riprendere l’idea della “dipendenza da videogiochi”. Infatti, oltre alla pretesa di comportare violenza, quella di comportare assuefazione rappresenta una delle peggiori pubblicità per i videogiochi.
La falsa analogia tra la dipendenza da gioco d’azzardo e la dipendenza da videogioco.
La dipendenza è un termine usato in vari modi, ma generalmente si riferisce a un disturbo compulsivo ossessivo, (cui è difficile resistere) di prendere qualche sostanza o di svolgere un’attività chiaramente negativa e probabilmente perniciosa per noi. L’esempio di dipendenza più evidente è ovviamente quello della dipendenza da sostanze chimiche, che comporta nelle persone una dipendenza fisiologica da sostanze quali alcool, nicotina o eroina, con presenza di sintomi dolorosi o debilitanti da astinenza. Tuttavia, non a torto e sempre di più, gli psicologi designano con il termine di dipendenza anche quei comportamenti nocivi che possono trasformarsi in compulsivi ossessivi, pur senza ingestione di sostanze chimiche. Il miglior esempio di ciò è rappresentato dal gioco d’azzardo ossessivo.
Molte persone e i loro familiari soffrono perché non riescono a smettere di giocare. Dissipano il loro denaro in giochi d’azzardo, poi ne prendono in prestito altro per poter giocare di nuovo, indebitandosi sempre di più, finché, nell’impossibilità di domandare prestiti, finiscono per rubare e giocarsi anche ciò che rubano, in un disperato, quanto inutile tentativo di uscire dai debiti e salvarsi dalla rovina insieme ai familiari. Queste persone sono costrette a giocare perché non vedono altra strada per smetterla con i debiti, e/oppure a causa dell’eccitazione rinnovata ogni volta dalla vincita. Il gioco d’azzardo ossessivo è un problema maggiore assai serio, ciononostante, la legislatura dei differenti stati continui in qualche modo a incentivarlo (tramite casinò ma anche lotterie di stato) per rimpinguare le casse degli stati e ridurre le tasse che sono a carico di coloro che non giocano.
Molti, se non tutti i ricercatori che sostengono il concetto di dipendenza dai videogiochi, hanno segnalato un’analogia fra il videogioco e il gioco d’azzardo. Infatti, molti fra questi studi, compreso quello molto quotato svolto di recente a Singapore[iii], hanno utilizzato il questionario in uso per attestare la componente compulsiva del gioco d’azzardo, sostituendo soltanto la parola “gioco d’azzardo” con quella “gioco video”. La tentazione di assimilare le due cose è ovvia per coloro che non conoscono bene i videogiochi. Visto dal di fuori, giocare a un videogioco può sembrare analogo all’essere davanti ad una slot-machine in un casinò, ma le differenze esistono! Prima di tutto, molti giochi d’azzardo, specialmente quelli che creano assuefazione, sono semplici giochi legati alla fortuna (per tutti tranne per quei pochi che s’ingegnano a barare). Sono congegnati in maniera tale che in fin dei conti si perde sempre, anche se a breve scadenza è possibile vincere. Esistono eccellenti studi che sottolineano il modo in cui la natura casuale, imprevedibile di queste vincite operi nella mente, per far scattare in alcune persone un comportamento identificabile giustamente con l’assuefazione. Il “pensiero” irrazionale che accompagna quel comportamento e difficilmente refutabile è il seguente: “La prossima volta che spingo la levetta potrei far centro, quindi ci provo ancora”…, poi un’altra volta, un’altra volta ancora, e così via.
Contrariamente a ciò i videogiochi sono giochi di abilità. Sono simili al gioco degli scacchi o ad altri giochi nei quali la vittoria dipende dalla perseveranza, dall’intelligenza , dall’esercizio, dall’apprendimento, non dalla fortuna. Le vittorie non si ottengono per caso, ma con lo sforzo. Per passare al livello superiore bisogna lavorare sodo. Inoltre, le vincite ai videogiochi come al gioco degli scacchi, sono semplici punti gioco (a meno di partecipare a una gara a premi in denaro). La vincita è indice di una supremazia nel gioco. Vincere a quei giochi non comporta premi mondani, e cosa ancora più importante, perdere non comporta debiti. Per questo motivo i videogiochi e gli scacchi devono essere considerati giochi veri, al contrario del gioco d’azzardo.
È difficile pensare che una persona normalmente dotata d’intelligenza possa perdere tanto tempo a giocare, senza supporre che qualcosa di irrazionale lo/la spinga a farlo. In quanto gioco il gioco d’azzardo è stupido. Non richiede alcuna abilità o intelligenza. Si continua a ripetere all’infinito la stessa stupida azione, e talvolta si vince, ma quasi sempre si perde. Nessun sentimento legittimo di supremazia. Posso ammettere il caso di persone sane, che giocano d’azzardo ogni tanto, per svago, perché hanno qualche soldo in più e in mancanza d’altro da fare; ma il fatto di trascorrere ore e ore così ogni settimana rasenta per definizione la patologia. Perciò è lecito ipotizzare che quelle persone per altri versi intelligenti, che passano molto tempo a giocare d’azzardo, siano in preda a una compulsione irrazionale che possiamo etichettare propriamente come “dipendenza”.
Non si può dire altrettanto per i videogiochi, gli scacchi o gli altri giochi legati all’abilità o alla competenza. Più si gioca, più si acquista competenza e conoscenza, migliori si diventa al gioco (come anche in tutte quelle attività che richiedono un’equivalente competenza o conoscenza). Si impara dai propri errori, e più si gioca migliori si diventa. Quindi, il fatto di giocare parecchio non implica necessariamente una dipendenza; significa soltanto di essere chiaramente assorbiti dal gioco per cercare di diventare più bravi. Qualora non credeste che i videogiochi implichino conoscenza e intelligenza, date un’occhiata alla guida online associata a un unico gioco, Il mondo di Warcraft-WoWwike. Si tratta della seconda raccolta di conoscenze online al mondo! La prima è Wikipedia (e ringrazio il mio collega Mike Langlois per avermi dato questa informazione).
In maniera poco opportuna, alcuni studiosi si sono basati su studi sul cervello per attestare la natura ossessiva del videogioco. Facendo una breve ricerca nei blog di Psychology Today, si vedrà che anche uno o due autori che intervengono insieme a me nel blog vi aderiscono. In effetti è vero, gli studi di risonanza magnetica sul cervello hanno mostrato che alcune “aree del piacere” nel cervello si illuminano quando i giocatori fanno centro, e le stesse aree si illuminano anche quando i giocatori di videogiochi fanno un punto al gioco. Ma è normale che sia così! Se non succedesse, significherebbe soltanto che fare centro o fare un punto al gioco non generi piacere. Tutto ciò che genera piacere proviene dall’attività nelle aree del piacere del cervello.
Sono certo che se mi sottoponessi a una risonanza magnetica funzionale fRMI, le mie aree del piacere si illuminerebbero ogni volta che mi venisse in mente una parola con sette lettere giocando a Scrabble, o anche ricevessi una critica favorevole su un mio scritto, oppure mangiassi del gelato al pistacchio, o se infine mia moglie mi baciasse come vorrei. Se occorresse definire tutto ciò che attiva i “centri del piacere” del cervello per poi ridurlo, si finirebbe per eliminare tutto il divertimento. Dovremmo diventare puritani, ma anche in quel caso qualcuno potrebbe scoprire che i centri del piacere sarebbero illuminati anche per il fatto di essere ottimi puritani e in quel caso come faremmo? A che scopo vivere, allora? I padri fondatori americani avrebbero forse tradito la loro origine puritana dichiarando che il “conseguimento della felicità” è un diritto umano fondamentale? Eppure i neurologhi ci dicono: “Attenzione, se s’illuminano i centri del piacere!”, e specialmente nel caso dei bambini.
Le équipes di psicologi e psichiatri che stabiliscono le liste ufficiali di disturbi psicologici per il Manuale diagnostico e statistico di disturbi mentali (DSM) dell’Associazione psichiatrica americana, a seguito di una ricerca attenta, hanno deciso di aggiungere la dipendenza da gioco d’azzardo alla nuova edizione del manuale, senza tuttavia aggiungervi la dipendenza da videogiochi, malgrado la notevole pressione da parte dei professionisti lieti di avere un nuovo disturbo da curare. Penso che per entrambi i casi sia stata presa la giusta decisione.
I luoghi comuni (stereotypes) negativi possono penalizzare fortemente i giocatori di videogiochi.
Mike Langlois, che insegna psicoterapia nella mia stessa università, si considera uno psicoterapeuta favorevole ai giochi. Lavorando con clienti che giocano ai videogiochi, sostiene che essi non soffrano per il gioco in sé, ma per l’alone negativo che vi è associato. La gente gioca per il gusto della sfida, per divertimento, per l’interazione sociale che esso crea con altri giocatori. Tuttavia viene anche bombardata di messaggi provenienti da una ambiente culturale più vasto che bolla il gioco perché genera “pigrizia”, “ossessione” ed effetti negativi di ogni specie, e ciò in definitiva diventa una fonte di preoccupazione per i giocatori. Le persone che trascorrono un tempo corrispondente al gioco degli scacchi, a leggere libri di letteratura, o a sciare non sono soggetti a tali interventi. Secondo Langlois, sono i messaggi stessi ad esse r causa di preoccupazione. Come egli sostiene, “Secondo un luogo comune il giocatore è apatico e refrattario a ogni lavoro o impegno. Come sappiamo però, i cliché possono venire interiorizzati e portare ad un negativismo autocompiacete; mi è capitato per esempio di sentire dei giocatori giudicarsi pigri scansafatiche”.[iv]
Per combattere i luoghi comuni, Langlois fa notare che il videogioco rappresenta un divertimento faticoso, non facile. Citandolo testualmente: “Non sarebbe possibile divertirsi così faticosamente se i giocatori fossero realmente pigri o apatici. Il livello di dettagli da osservare è sbalorditivo, sia nel caso della scelta di una professione 525 nel Wow, o per effettuare tutti i livelli in Halo 3, o infine per fare un mapping dettagliato dell’universo EVE Online. Si tratta di meticolosità, non di apatia”. Perciò Langlois aiuta i giocatori a sentirsi bene quando giocano. Non c’è motivo per un giocatore di videogiochi di pensare che il suo hobby sia peggiore di quello di un incallito giocatore di scacchi o di uno sciatore.
Naturalmente però il problema sussiste in pieno per le persone che si lasciano trascinare dalla passione per i videogiochi, o per gli scacchi, o qualunque altra cosa, tanto da interferire con altri aspetti della loro vita. Molti di noi, specialmente avvicinandosi alla maggiore età, devono imparare a gestire il proprio tempo, per poter fare ciò che si desideri e al contempo adempiere gli obblighi verso gli altri. I miei cari alle volte mi rammentano che non è giusto che io trascorra tutto il mio tempo a leggere, scrivere, ad andare da solo in bicicletta o a sciare. Non per questo però si deve bollare tutto ciò con il termine di dipendenza. Definiamolo solo un problema di gestione del tempo e cerchiamo di scoprire la maniera costruttiva per risolverlo.
In alcuni casi, tuttavia, i periodi di tempo troppo lunghi dedicati ai videogiochi (o a una sola e unica attività), possono essere sintomatici di una mancanza nella vita di quella persona.
In alcuni casi le persone intraprendono un’attività non solo per il piacere che ne ricavano, ma anche per sfuggire a qualcosa di doloroso nella vita o anche perché è l’unica strada per di soddisfare dei bisogni psicologici fondamentali; ciò può capitare agli adulti come ai giovani. Un videogioco come qualunque altra cosa può diventare un’attività ossessiva compulsiva. Ad esempio agli adulti può capitare di consacrare molto più tempo del dovuto alla carriera, anche per evitare un atmosfera familiare non piacevole. Alcuni giovani si dedicano al gioco in parte come scappatoia e altri dicono che quello rappresenta per loro il solo campo di azione in cui si sentono liberi. [v] Quando ancora i bambini non possono giocare fuori da soli e i loro giochi sono più o meno guidati solo dagli adulti, il mondo virtuale dei videogiochi rappresenta l’unico spazio da percorrere e esplorare liberamente. Se avessero una maggiore autonomia nella vita reale, molti di loro passerebbero meno tempo ai videogiochi.
Per illustrare questo concetto, il ricercatore britannico sul gioco d’azzardo Richard Wood espone alcuni esperienze reali. [vi] Il caso di Martin, un ragazzino undicenne: poiché sua madre cominciava a preoccuparsi per l’enorme quantitativo di tempo che il bambino dedicava al Mondo di Warcraft, gli venne proibito di giocare a quel gioco come ad altri videogiochi, cosa che non fece che peggiorare la sua situazione. Wood riferisce di aver scoperto che Martin era figlio unico, vittima di bullismo a scuola, odiata dunque dal ragazzo; egli aveva paura di uscire di casa proprio per i ripetuti atti di bullismo. Il videogioco online rappresentava il solo modo di esprimersi liberamente e l’unica relazione soddisfacente che avesse con altre persone. Il fatto di esserne privato lo aveva notevolmente sconvolto.
Un ulteriore studio di caso è quello relativo a Helen, un medico trentaduenne che lavorava temporaneamente come ricercatrice e che impiegava la maggior parte del tempo libero dentro casa a giocare a Final Fantasy MMORPG (un gioco di ruolo di massa online per multigiocatori). Si scoprì che Helen aveva subito in precedenza una brutta rottura sentimentale, non amava molto il suo lavoro e soffriva di depressione acuta. La sua depressione non era originata dal gioco Final Fantasy; quel gioco era invece il modo che aveva trovato per far fronte a quel difficile periodo della sua vita. In quel momento quel gioco online le procurava le relazioni sociali e il piacere di cui aveva bisogno.
Esaminando un campionario di più di 1300 giocatori fra i 18 e i 43 anni di età, Andrew Przybylski e la sua équipe dell’Università di Rochester sono giunti alla conclusione che solo una piccola percentuale di coloro che giocano molte ore al giorno reputano di essere giocatori ossessivi compulsivi; non solo sentono di “voler” giocare, ma anche di “averne bisogno”.[vii] Quando finiscono una sessione del gioco, tali giocatori, invece di sentirsi rinvigoriti e pieni di energia come gli altri giocatori, si sentono tesi e infelici. I test dettagliati usati per queste ricerche hanno rivelato inoltre che in genere i giocatori “ossessivi compulsivi” fossero quelli i cui bisogni psicologici fondamentali, di libertà, di competenza, di rapporti sociali, non venivano realizzati nella vita reale.
Quindi, se vi sembra che un figlio o una persona che vi è cara, giochi in maniera ossessiva ai videogiochi e sia felice solo giocando, non correte subito alla conclusione che i giochi siano all’origine della loro infelicità. Parlatene invece con loro e cercate di scoprire quale siano gli aspetti mancanti o sbagliati della loro vita e se vi sia possibile aiutarli a risolvere quel problema.
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Bene, questo è tutto quello che ho da dire sull’argomento, almeno per ora. Che ne pensate? Quali sono le vostre esperienze sui videogiochi a favore o contro le riflessioni che ho esposto precedentemente? Questo blog è un forum di discussione e le vostre opinioni e esperienze sono prese sul serio, da me come dagli altri lettori. Potete sottomettere le vostre idee e domande nella parte destinata ai commenti.
Come sempre, preferirei che inviaste i commenti e le domande come post nel blog piuttosto che per posta al mio indirizzo. Inviarli al blog implica una condivisione con gli altri lettori, non esclusivamente con me. Io leggo tutti i commenti e mi sforzo di rispondere a tutte le domande importanti. Naturalmente, se dovete comunicare qualcosa di personale, allora mandatemi una mail.
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Note bibliografiche:
[i] C. Ferguson, C. San Miguel, A. Garza, J. Jerabeck: “A longitudinal test of video game violence influences on dating and aggression: A 3-year longitudinal study of adolescents.” Journal of Psychiatric Research, messo in circolazione nel 2012.
[ii] D. Gentile, H. Choo, A. Liau, T. Sim, D. Li, D. Fung, & A. Khoo Pathological video game use among youths: A two-year longitudinal study. Pediatrics, 127, e319-e329, (2011):
[iii] I describe some of this research in my textbook: P. Gray (2011). Psychology, 6th edition. pp 194-195.
[iv] M. Langlois Reset: Video games and psychotherapy. BookBrewer. Kindle Edition (2011)..
[v] (a) Olson, C. K. (2010): Children’s motivation for video game play in the context of normal development, Review of General Psychology, 14, 180-187; (b) Stevens et al., (2008). “In-game, in-room, in-world: reconnecting video game play to the rest of kids’ lives, pp 41-66, K. Salen (Ed.); The ecology of games: Connecting youth, games, and learning), The John D. and Catherine T. MacArthur Foundation series on digital media and learning. Cambridge, MA: MIT Press (serie in edizione e didattica digitale).
[vi] R. T. A. Wood: Problems with the concept of video game “addiction”: Some case study examples. International Journal of Mental Health and Addiction, 6, 169-178, 2008.
[vii] A. Przybylski, N. Weinstein, R. M. Ryan, & G. S. Rigby (2009). Having versus wanting to play: Background and consequences of harmonious versus obsessive engagement in video games. CyberPsychology & Behavior, 12, 485-492.
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Peter Gray, medico, professore ricercatore al Boston College, e autore del libro recentemente pubblicato Free to Learn (Basic Books) e Psychology (un libro di testo, ora alla sesta edizione).
Altri articoli di Peter Gray in inglese:
www.psychologytoday.com/blog/freedom-learn
Libro in inglese Free to Learn:
Articolo originale in inglese:
www.psychologytoday.com/blog/freedom-learn/201202/video-game-addiction-does-it-occur-if-so-why
Traduttrice: Alessandra Tamanti
Rossana dice
Ho trovato interessante questo articolo. Mi ha in parte tranquillizzata riguardo un mio familiare che dedica molto del suo tempo libero ai videogiochi. Il fatto che questi non lo mettano in relazione con altre persone é molto negativo?
Rossana dice
Articolo interessante. Mi ha chiarito diversi aspetti dell’argomento.
Se una persona dedica molto del suo tempo libero ai videogiochi ma non si mette in relazione con altri giocatori, c’é da preoccuparsi? Grazie!